giovedì 27 settembre 2012

L'ultima cena



Da due giorni la lettere del perfido avvocato di Marcello giace ancora sigillata sulla scrivania in salone.
Non ho il coraggio d’aprirla, sono una vigliacca, so che leggere quelle parole scritte da un estraneo decreteranno ufficialmente la fine del mio matrimonio, è la richiesta ufficiale di separazione.
Non sono pronta adesso, la leggerò a Bologna, quando i bambini saranno a scuola, quando sarò nella mia tana, da sola.
Marcello minaccia una separazione giudiziale, è ferito, non sopporta che io non lo ami più. Lo capisco, è un uomo, (quindi già per natura cerebralmente ipodotato) e in più è un uomo che ha paura di restare solo, di dovere ricominciare, terrorizzato che il suo mondo precostituito ed ignorato venga distrutto. So che si vede povero, in un mini appartamento intento a cucinare, lavare, stirare e pulire. Il panico non lo farà respirare.
Mi dispiace, immensamente. Mi dispiace di non essere più felice con lui, di non amarlo più, vorrei fosse diverso ma non lo è.
Ho tolto la fede dal mio anulare, un simbolico gesto di distacco che era necessario. L’ho conservata con tenerezza, con rispetto.
Mi guardo la mano continuamente, è libera, anche se l’anulare si è affusolato  nel punto dove la portavo e un piccolo cerchietto bianco me ne ricorda l’assenza. Tra un paio di mesi, sparita l’abbronzatura forse anche io non ci farò più caso.
 La mia adorata villetta sul mare nella ridente frazione di Messina, Torre Faro, domani verrà chiusa fino a Natale.
Quanto amo questa casa, penso chiudendo gli ultimi scatoloni da spedire a Bologna. L’elegante eucalipto del giardino riempie il salone della sua pungente fragranza,  mi manca quest’odore quando non vivo qua.
Cagnetta, la mia vecchiotta  bastardina color miele, è triste, sa che stiamo per partire, che Claudio e Alessandro  non la useranno più come tiro a bersaglio, sta accucciata in un angolo della stanza, immobile mi guarda dal basso verso l’alto con i suo dolci occhi marroni.
Il sole tramonta colorando il cielo di un caldo rosso dorato, mentre accarezzo il muso ormai bianco di Cagnetta.
Dal giardino sento le voci allegre dei miei figli e del gineceo con cui sono imparentata, come farò ad affrontare tutto da sola? A volte mi chiedo perché non ritorno stabilmente a vivere nella mia città, me lo chiedo ogni volta che faccio le valige per tornare a Bologna.
“Paola serve altro vino, tua madre beve come una spugna!” urla Giada ridendo.
La piccola Azzurra arriva incerta sulle sue paffute gambette, mi guarda sgranando i grandi occhi che tutte abbiamo ereditato da mio padre e mi prende la mano per portarmi fuori.
Era stato invitato anche Marcello ma il suo diabolico avvocato avrà pensato che dividere il desco con quella che fino a ieri era la sua famiglia fosse riprovevole e pericoloso.
“Allora questo vino? Qui la matrona ha sete!”
Lucilla ha incastrato Silvana in una di quelle odiose discussioni che solo le madri riescono a fare. Discussioni provocatorie-indagative, quelle in cui Lucilla eccelle.
“Allora come va con Pietro?” chiede infastidita a una Silvana quasi brilla, stravolta dalla stanchezza semisvenuta sul dondolo, mentre i suoi nipoti attentano alla sua messa in piega con luride manine.
“Ahi!” diciamo in coro io e Giada ridendo. “Io fossi in te mi nasconderei dietro un astuto “no comment”.
“Bene mamma, bene, ci si parla poco per ora, sai la bambina mi impegna molto, ma è tutto a posto” dice scostando una ciocca di capelli biondi freschi di parrucchiere.
“Sai dopo la nascita di un bambino è normale che….” Inizia mamma lanciatissima in un noiosissimo discorso da saputella.
“Ah no mamma, ti prego!” dice Giada interrompendola.
“Non provare a fare la madre amorevole, non ti riesce proprio, piuttosto ho fame porti in tavola la frittata che hai preparato?” Giada è così, sarcastica. Vivendo insieme a Lucilla è quella che emotivamente patisce di più la sua influenza nefasta, è così magra che le si vedono le ossa e da un paio di mesi veste sempre di nero.
Tutte e tre guardiamo nostra madre scuotendo la testa sorridendo, nell’affettuoso tentativo di farle capire che un genere di approccio madre-figlia classico, affettivo e accogliente non ci convince, non ce la fa, non ci siamo neanche abituate, ci imbarazzerebbe.
Un leggero vento di scirocco scompiglia i capelli di Lucilla mentre ancora col broncio porta in tavola i piatti che ha preparato per noi. Lo fa per abitudine di viziarci con piatti sublimi e ipercalorici nel tentativo di compensare col cibo quell’affetto che per sua natura non riesce a donare. Li ha cucinati per me, è triste, non vorrebbe vedermi partire.
“Ti sei tolta la fede?” mi sussurra Silvana in un orecchio,.
Annuisco. La mia dolce sorella capisce bene i miei stati d’animo e come se i nostri pensieri fossero collegati da profonda empatia.
Con la tavola stracolma di delizie tipicamente siciliane, Giada alza il bicchiere per un brindisi.
"A quella scema di Paola che ci abbandona ancora una volta, a questa ultima cena insieme! Ricordati sorellona "Morto un papa se ne fa un altro!".





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