sabato 30 gennaio 2016

Giulia

E questa in ordine di apparizione è Giulia, una delle tre protagoniste del mio libro.
Giulia

"L’estate stona con l’infelicità.", pensava Giulia.


Entrava molta luce dalle grandi vetrate, nonostante il temporale. Guardava, distratta, gli alberi carichi di nuove gemme piegate dalla pioggia.


La piccola sala, dove le cinque donne aspettavano davanti ad una porta chiusa, era intrisa di dolore.


Tutte quelle donne non sarebbero diventate madri, non di quei bambini perduti.


Il reparto di ecografia ginecologica pullulava di grandi pancioni. Risuonava di rapidi battiti di giovani cuori, di gioia.


Le quattro donne insieme a Giulia soffrivano.


Perdere un bambino è sempre una violenza che una donna eviterebbe volentieri.


Una giovane biondina, coperta di lentiggini, guardava impietrita un signore che riparava la macchina del caffè. Aveva la tuta macchiata di rosso scuro, scarpe da tennis sdrucite usate come pantofole e grandi occhi verdi gonfi di pianto. Annuiva distratta ad una corpulenta signora di mezza età che accompagnava la storia delle sue sventure, con svolazzi di mani minuscole. Raccontava tutto: aborto, raschiamento, emorragia.


È come se riuscissi a sentire l’odore del sangue, pensò Giulia.


"È inguaiata!", le aveva detto il maleducato dottore di origini campane, appena conclusa la prima ecografia.


"È una gravidanza ectopica.", aveva sentenziato scuotendo la testa. 10








"L’embrione si è impiantato fuori dall’utero, dobbiamo operare e toglierle la tuba. È una precauzione per lei, signora, le gravidanze extra-uterine possono essere mortali.", aveva annunciato togliendosi gli occhiali, dopo aver letto la cartella clinica di Giulia.


Il medico era un cinquantenne belloccio che si credeva estremamente spiritoso. Un’abbronzatura da vacanza sulla neve, una fede al dito e un gruppo di giovani infermiere adoranti, completavano il cliché.


Era incinta.


Aspettava un bambino dall’uomo con cui aveva una relazione clandestina.


Si sarebbe dovuta operare per estirpare il frutto del peccato, le suggeriva bigotta la sua anima indottrinata da un padre, la cui fede rasentava il fanatismo. Non era stata decisamente la sua settimana fortunata.


Era iniziata al meglio, rifletteva Giulia guardando il vento scuotere gli alberi: il suo amante le aveva regalato un viaggio di due settimane alle isole Eolie, a Salina. Era contenta, stupefatta ma contenta; probabilmente era quello di cui avevano bisogno.


Gli ultimi sei mesi erano stati un inferno di sensi di colpa e di passione sfrenata. Le avrebbe fatto bene cambiare aria, resettare tutto, dimenticarsi di questo brutto incidente.


Chissà cosa avrebbe fatto se il bambino fosse stato al posto giusto… Come sarebbe stato, cosa avrebbe fatto, che decisione avrebbe preso? L’avrebbe tenuto?


Il figlio di Marco, perché era di Marco, non aveva alcun dubbio.


A trentasette anni, con un lavoro part time e un minuscolo appartamento in affitto a Roma, la città più caotica del mondo, avrebbe avuto il coraggio di lasciare il suo fidanzato storico, per avere e crescere da sola il 11








figlio del suo amante, un impenitente e orgoglioso single?


"Dio hai veramente un bel senso dell’umorismo", pensò amara.



martedì 26 gennaio 2016

la tecnologia, che angoscia!




Questa è la mia espressione quando ho un problema al computer! Quando sono disperata perché capisco che io misera autodidatta non ci arrivo, mi arrovello un mucchio,  ma non ci arrivo.
Innanzi tutto, la cosa che mi fa andare più giù di testa.... è lento, tremendamente lento.
Il cervello di una donna è più veloce e non ama perdere tempo, così senza un motivo vero.
Vero pure è, che mentre fai una cosa al computer ne segui contemporaneamente altre tre e ne hai due in sospeso per ottimizzare i tempi morti. Questa espressione di gratitudine e di rimprovero come ad un bambino sciocco che fa una monelleria, descrive bene il mio rapporto col computer.
Sicuramente è amore, ma con molta poca tolleranza, dovrebbe essere svelto, dai, ci vorrei parlare, Vorrei che capisse senza dire niente insomma, veloce, rapido, hop, hop!
Ma che fa? Non capisce? (io gli parlo...e abbiamo spesso discussioni accese). Lui, lo gnorri.
Rigido, lì uno stoccafisso, ha bisogno di schemi preconfezionati, è pigro, macchinoso, paranoico, ha bisogno di continue se non giornaliere, conferme....e che palle!!!
Appunto, è bisognoso di conferme, che io per partito preso non gli vorrei dare, perché non  c'è ne bisogno, e daiii, su svelto insomma, che non è che posso star qui una vita a spiegarti cosa vorrei...sei un computer, e allora???
Lo dovresti capire da solo, no?.
Sta lì, cincischia e si fa i cavoli suoi, inutile direi... Che nervi!!!
Mai che facesse quello che ho in mente di fare, mai, mai! Io vorrei un documento word che diventa un jpg e lui non ha il pulsante, non c'è l'ha davvero, non per noi neofiti. Perché non inventate, voi che ne capite, un pulsante, non un programma da scaricare, installare, provare se funziona , un semplicissimo pulsante che ti offra il  servizio che richiedi? No, un mulo.
Poi  'ste password... santa pazienza... che pensa che io davvero mi devo ricordare a memoria cinquecento codici?
Il bancomat...vuoto...ma con password, la carta...che è meglio che non la uso, poi il conto online, fb,  twitter, la password del blog, la password di #Donnamoderna, che non ricordo più e ci litigo da mesi...sarà la mia data di nascita, il compleanno dei miei figli, il nome del mio primo cane, il nome da nubile di mia madre, il soprannome del compagno di classe, la data della prima volta che hai fatto l'amore, la data del matrimonio, della separazione, il titolo del tuo film preferito, quante volte ti fai la doccia in una settimana, il nome della palestra, del tipo della palestra che hai un fisico da paura che sembra un demente... Oh ...insomma!
Quasi un uomo...
E io mi indispongo...




                                                           Così!






sabato 23 gennaio 2016

Vi presento Viola!



Viola


...Il cielo stellato si era illuminato di una tiepida luce, il buio lasciava il posto ad un nuovo giorno. Il viso di Viola era segnato da una notte insonne passata a scrivere, a correggere, riordinare i pensieri.

Mosse in tutte le direzioni la testa nel tentativo di non sentire quel dolore sordo alla prima vertebra che l’affliggeva già dopo un paio d’ore, seduta alla scrivania.

"Anche questa notte è passata!", si disse guardandosi al grande specchio rettangolare accanto al letto.

Aveva un aspetto orribile, i lunghi capelli neri erano aggrovigliati, il trucco intorno agli occhi sbavato, dava un’idea di sporco e disordinato.

Una doccia avrebbe sistemato tutto, pensò pratica.

I giorni precedenti l’anniversario della morte di Fiorella erano giorni in cui Viola perdeva il controllo della sua vita.

Erano passati quasi dieci anni da quel giorno tremendo e il dolore bruciava dentro, straziante come allora.

Iniziava tutto in maniera casuale: prima delle inusuali disattenzioni, poi piccole ferite in cucina, le accidentali cadute, infine l’insonnia.

L’ansia che le toglieva il fiato arrivava di notte, silenziosa e subdola, le stringeva il petto, la costringeva ad una veglia costante, timorosa.

I ricordi, gli odori, le sensazioni di quei giorni ormai lontani, tornavano come uno schiaffo a ricordarle cosa fosse successo.



Aveva messo via, meticolosamente, tutti gli oggetti che potessero portarla indietro con la memoria, aveva conservato le foto, regalato i vestiti, aveva stipato in soffitta tutti i ricordi legati a lei, in un grosso baule chiuso da dieci anni.
L’assenza però a volte è più potente della presenza.
“Non è vero che il tempo cancella le ferite…”, si disse Viola immersa fino al collo nella vasca smaltata di verde.
“Ci si abitua a portarle addosso come un marchio indelebile di infelicità, come un’incrinatura del tuo essere che sarebbe stato diverso senza quei segni.
È l’abitudine alla sofferenza che rende possibile continuare a vivere, è la lenta accettazione di quello che è accaduto che ti permette di vivere un giorno dopo l’altro”.
Ancora oggi, dopo dieci anni, in una piccola parte di lei, ad ogni attimo di felicità, ne seguiva uno di profondo sconforto.
Lei non poteva permettersi di essere felice, non fino in fondo.
Era viva, mentre Fiorella non c’era più e questo le doveva bastare, si disse prima di immergere la testa sotto l’acqua coperta da bolle profumate. Il gallo, in lontananza, dava il benvenuto al nuovo giorno...
 Curiose forme d'amore  (Albatros edizioni)



mercoledì 20 gennaio 2016

Il mio nuovo libro è in vendita, gasatissima sono!!!











...è nato finalmente, è in vendita, è pronto.
Il mio secondo romanzo "Curiose forme d'amore" è sul mercato. Da pura fantasia si è trasformato in carta e parole.
Sono agitatissima!!!


Se volete trovare e leggere subito il mio libro cercate qui.

martedì 19 gennaio 2016

Stasera arancine!


Stasera arancine!

Mia mamma, lo sa. Quando cucino le arancine o come si dice a Messina, gli arancini, lei lo sa, lo sa.

Che quello che è, c’è…

E’ complicato a volte tradurre in italiano un concetto siciliano. Ci provo.

Mia madre, con fare saccente, alzando gli occhi al cielo, pronuncerebbe questa frase entrando in cucina e vedendo gli ingredienti di rito per la preparazione degli arancini sul tavolo da cucina, quasi senza guardarmi, senza aspettare una risposta, vaga e allusiva come solo una madre sa essere. La ripeterebbe due volte, per essere capita meglio, casomai la prima fosse sfuggita.

Perché gli arancini non si preparano così al volo, dieci minuti di spignattare e via, no! Ci vuole tempo. Minimo un’ora e mezza, senza la frittura. Ci vuole valiiia, direbbe la genitrice, strascicando la i di valia che significa voglia. Allusiva, appunto.

L’arancino fatto a casa è una coccola che ti vuoi fare per davvero, perché costa tempo.
Tempo e fatica.

Già il riso, un buon quarto d’ora di cottura, stasera bianco con broccoli saltati, acciughe e uvetta. Diversi da quelli che preparo di solito. A me piacciono bianchi, quelli col ragù non mi convincono fino in fondo. Non so se aggiungere un po’ di zafferano. Ancora non lo so. Ho il tempo mentre il riso bolle, di pensarci.

Quando prepari gli arancini, di solito lo comunichi. Le mie amiche lo sanno.
Sanno che sto preparando gli arancini.

Io la situazione ce l’ho chiara su quasi tutti i punti di vista…quindi faccio gli arancini, perché? Una domanda da Marzullo.
Perché l’arancino è un rito, l’impanatura ad esempio, mica è facile?
Devi usare tantissimo le mani, una cosa che come fare il pane, ti impegna in prima persona, una specie di corpo a corpo. Prima la farina, poi stringi, stringi, nell’uovo, bagni, bagni, e poi la mollica, tutta, dappertutto, a coprire tutti i buchi, che se no poi si apre in frittura.
La frittura. Pure quella, è un attimo, che anche dopo anni di attento e assiduo esercizio, scivoli su una frittura scorretta. Dopo anni ho capito, l’ho capito davvero.

 L’arancino e la sua preparazione è una forma attenta di meditazione.

Di meditazione del sud.

C’è chi al nord fa yoga? Corrono, anche, per schiarirsi la mente…anche in un ambiente puzzolente e correndo a vuoto, come i criceti sulla ruota, davanti a un video.

Per me il movimento dovrebbe essere finalizzato a qualcosa di pratico. Nuoto, a mare, raccolgo sassi, conchiglie e pesco. Passeggio nei prati, faccio trekking? Torno a casa con mazzi di lavanda, frutta che ho trovato per strada, corteccia e muschio per il presepe, pigne da colorare, basi di tronchi per fare sedie.

Noi siciliani, dicevo, divago come al solito, facciamo yoga, ma facciamo pure gli arancini, che poi dopo lo yoga se ti siedi a tavola e ci sono gli arancini che hai fatto tu, c’è più soddisfazione.

Quindi tutto quel preparare ha a che fare con la meditazione, la cucina è una forma di meditazione, come tutte le cose che fai d’istinto, col cuore.

Quindi io stasera, scappo che faccio gli arancini!

“Quello che è, c’è!”

Sento la voce anche se non c’è… trovo molto romantico preparare gli arancini...

 

 

 

 

mercoledì 13 gennaio 2016

Parliamo di romanticismo...


Parliamo di romanticismo, il mio romanticismo.

Diversamente romantica, tendente al cinico, a volte spoetizzante, con uno humor molto inglese, ingenuamente ironica, atrocemente sarcastica non potevo che non sviluppare un romanticismo tanto curioso tanto ignorato. Ci sono donne che la pensano come me, lo so, ne sono assolutamente convinta.

Non mi accorgo del romanticismo classico, non mi colpisce, non mi impressiona, mi lascia indifferente. A tratti, mi annoia.

Ci sono delle cose invece, che mi colpiscono direttamente al cuore e me lo sciolgono, sono particolari, assurdi particolari.

Trovo romantici gli uomini che ti coprono quando hai freddo e che non ti richiedono indietro quello con cui ti hanno coperto, perché mi rimane il ricordo del calore sentito, ogni volta che avrò addosso quel qualcosa di suo.

Di solito, il facile cliché delle rose, non mi convince per niente, i fiori muoiono, sporcano e mi fanno allergia. Trovo romanticissimo il Ficus Benjamin, bello frondoso, verde brillante, mazzi di basilico che poi ci faccio il pesto, il rosmarino la lavanda che poi la metto nei cassetti e cesti carichi di verdure fresche.

Mi innamoro di uomini che mi portano le valige, che mi riparano gli elettrodomestici, che mi appendono i quadri, che mi risolvono i problemi.

Trovo che la ripetizione di una frase, di un soprannome segreto, nel corso di una storia d’amore, possa diventarne il romantico titolo.

Trovo molto romantica l’educazione  e chi scende dalla macchina e accompagna al portone perché è buio e vuole essere sicuro di metterti al sicuro, magari con un bacio.

Mi piacciono gli spagnoli  d’animo, per la loro eleganza nei movimenti, tanta aggraziata cura nel modo di muoversi sottintende un animo Borbone che ricorda i principi bruni  che governavano la mia calda Sicilia. Una sensualità naturalmente studiata negli abbracci, nel modo di guardare, nel gioco morbido di non rispettare i confini, tutta questa grazia mi rincretinisce, completamente. Quella parte da Cenerentola demente, si sveglia e sorride pure, la deficiente.

Poi c’è il cibo e tutto quello che appaga i sensi.

A me non mi importa se ha fatto un corso da Master Chef, che lui abbia una cantina stracolma di etichette  celeberrime, che lui non sappia cucinare un uovo bollito o se mi sa saltare l’anatra all’arancia con tanto di flambè, quelli sono fatti suoi, non mi interessa minimamente,  ma attenzione, attenzione, deve essere romanticamente capace di procurarmi buon vino, buon cibo e un’ottima compagnia. Non a caso trovo molto romantiche quelle trattorie italiane con le tovaglie a quadretti  e  la candela nella bottiglia vuota di vino come centrotavola.

Trovo romantico tutto quello che produce calore.

 Il sole predispone il mio animo al romanticismo, anche i camini, le sciarpe, i rubini, vado giù di testa per le coperte in cui avvolgersi, stufe a gas, l’idromassaggio caldo, la voce di Norah, una bella tazza di caffè americano quando fuori fa freddo, un bicchiere d’Amarone, una zuppa calda e buona, le candele, un cognac  con della cioccolata.
Trovo romantico chi mi sveglia la mattina, perché trovo le sveglie romantiche.

Trovo romantico l’odore della pelle, che sa di bagnoschiuma, di sole, d’amore, di me.

Trovo romanticissimi gli spostamenti.

Se dal punto A ti porta  al punto B, già lo si guarda diversamente.

Se ti porta in campagna che sia un bosco o un agriturismo poco importa, l’importante è che ci sia la possibilità di mangiare. Al mare, in città di notte quando sei al mare, deserta, un taxi, un treno, Dio, quanto sono romantiche le stazioni. Insomma lo spostamento illanguidisce.

Ora, dopo che vi ho illustrato la mia forma diversa di romanticismo, lo capite perché sono ancora single, vero?  ;-)