mercoledì 30 gennaio 2013

Libretto d'istruzioni!



Oggi sono dell’idea che per far durare le relazioni di coppia ci si dovrebbe scambiare dopo i primi incontri un “libretto delle istruzioni”.

 Un vademecum sulle sincere preferenze e sulle insofferenze di ognuno, così da non creare incomprensioni o fraintendimenti fatali per la durata della relazione.

Se dovessi leggere ad esempio sul libretto del malcapitato che colpito dal mio indiscutibile fascino mi chiedesse di  “frequentarci” (“stare insieme” non va più di moda e terrorizza gli uomini): “amo il pollo e ho tre gatti”  dovrei scartarlo seduta stante perché  potrei tollerare di vederlo mangiare il pollo ma non potrei esimermi da avere una forte reazione allergica, teoricamente letale, ogni volta varcata la soglia del mio improbabile principe azzurro. Eliminati i mangiatori di pollo e i possessori di gatti.

Se tra le righe dovessi scorgere la frase “ allergico al melodramma” sarei costretta a scartare a priori lo sterile interprete dei sentimenti, amando visceralmente le intense rappacificazioni post-melodrammatico litigio. Eliminati i freddi, i compassati  e gli ingegneri.

Se al primo incontro lui strabuzzasse gli occhi leggendo nel mio libretto “ amo i libri sul buddismo, nazismo, fantasmi e serial killer, reincarnazioni e fenomeni di premorte”  e si desse alla macchia, lo catalogherei come uomo poco curioso e passerei oltre.

Se a suo tempo il mio ex fidanzato si fosse passato una mano sulla sua coscienza non troppo pulita, se fosse stato onesto intellettualmente  e avesse scritto con candida sincerità a lettere cubitali (così da non poter passare inosservato) ”sono un bugiardo, porco, traditore e infame anche se molto simpatico e prediligo ingenue fanciulline a cui fare venire l’ulcera per puro diletto”, mi sarei risparmiata tre anni di sofferenze, centinaia di confezioni di Malox e un numero imprecisato (perché il fedigrafo confessa solo se colto durante l’accoppiamento) di corna mal portate.

Metti che al primo appuntamento, a cena, nell’intervallo tra una tartara di tonno e un filetto al sangue, leggessi in bagno che è ”vegetariano convinto” e a pag 1 scritto piccolo ma visibile “sono ancora innamorato della mia ex”, o peggio, “vivo ancora con la mamma” scapperei dal locale e andrei a casa a ordinarmi una pizza felice dello scampato pericolo.

 Leggendo che soffro di una forma acuta “della sindrome dell’abbandono” lui, e avendo letto, io, che di mestiere fa l’astronauta, il carabiniere, il camionista, l’alpinista, il killer professionista o qualsivoglia mestiere che, per statistica (per carità), contempli la possibilità di un non ritorno o che sta per trasferirsi in Giappone per tre anni con una predilezione per le donne dai tratti asiatici, si capirebbe all’istante di non essere fatti l’uno per l’altra.



Tutto tempo risparmiato! Molto poco romanticismo, ma se dovessi sommare  tutto i mesi passati a rendermi conto di essere accompagnata da uomini con me incompatibili, avrei accumulato anni da dedicare interamente a me stessa. Vi pare poco??

Eh sì, perché a quarant’anni bisogna ottimizzare i tempi. Un bel libretto e passa la paura: un bell’incontro, gli occhi che brillano e poi…compiti a casa…così se mi trovi disponibile a sopportare il tuo carattere scontroso, la passione per gli slip bianchi e l’ossessione per le gita in barca a vela ogni fine settimana, ok, ci si rivede, in caso contrario: passi lunghi e ben distesi e avanti con la prossima lettura!

lunedì 28 gennaio 2013

Notte al pronto soccorso


L’orologio segna mezzanotte.

Nella sala d’aspetto del pronto soccorso dell’ospedale  Sant’Orsola c’è molto movimento nonostante l’ora tarda. Una mamma culla il figlio dolorante per un più che evidente bernoccolo sulla fronte. “E’ caduto dal letto e ha sbattuto contro il comodino, saltava e cantava e poi giù, lo so che è una sciocchezza però le botte in testa mi fanno paura” dice in risposta al mio sguardo interrogativo.

Chissà perché molte mamme che arrivano trafelate con il figlio gonfio per qualche assurda peripezia che solo i bambini hanno la potenza di compiere la domenica sera, tendono a giustificarsi per paura di essere scambiate per mamme che picchiano i propri figli.

Tanti neonati con la febbre alta accompagnati da genitori col terrore dipinto in faccia affollano la piccola sala, se mi va bene quando andrò via, porterò con me una bella influenza!

Il riscaldamento è al massimo, soffocante. Ho preso la macchina per venire qua, forse non avrei dovuto ma non avevo altra scelta. Un’abbondante signora in pantofole, piange con discrezione in un angolo, aspetta notizie del marito, un codice rosso, portato d’urgenza in neurologia.

Io sono un codice verde, posso aspettare.

Sì, ho capito ma a me gira la testa e mi sento morire, ho i brividi e il cuore batte random seguendo un ritmo che non è normale…Quando mi chiamano?

Ero a casa, avevo messo a letto i bimbi da un po’ e guardavo un film angosciante sul nazismo quando improvvisamente mi è mancato il respiro, la testa ha cominciato a girare e avevo la netta sensazione di svenire. Mi sono seduta e nel panico totale la parte saggia di me ha razionalizzato.

Chiamare la vicina per tenere i bambini, uscire direzione pronto soccorso. Questi  sono stati gli unici pensieri coerenti alla situazione che sono riuscita a produrre. Avrei dovuto chiamare un taxi, invece ho guidato, posteggiato e sono entrata tremante al pronto soccorso.

Forse è stato un mese molto difficile, forse è solo un forte attacco d’ansia, forse una di quelle misteriose influenze senza febbre…Ma quando mi chiamano?

Pensando positivo, la situazione non è così grave, se mi viene un infarto sono nel posto giusto…

“Prego si accomodi” mi dice un infermiere che zoppica con un accento del profondo sud.

Disciplinata come una scolaretta lo seguo in ambulatorio.

Mi fanno accomodare su un lettino e un anziano medico con gli occhiali mi intima di spogliarmi senza neanche guardarmi.

Almeno guardami no? Il contatto visivo crea empatia non te l’hanno insegnato anni di duro lavoro?

In silenzio, con uno stetoscopio ghiacciato ascolta il mio cuore ballerino e subito dopo con appena un gesto del capo mi invita a porgergli il braccio per misurare la pressione.

“Mi dica, cosa succede? “mi chiede gentile.

“Non dovrebbe dirmelo lei?”  rispondo agitata.

“Ha la pressione alta normalmente?” chiede scrivendo qualcosa su un registro.

“No, bassa direi, sempre 70 su 110 di solito, perché?” chiedo sempre più ansiosa.

“Ha la pressione alle stelle ed  è tachicardica” sentenzia guardandomi serio.

“Quindi cosa c’è che non va?” chiedo irritata.

“Ha una crisi di panico, spesso i pazienti la scambiano per un infarto, si tranquillizzi è tutto a posto, ora le darò qualcosa per calmarla. E’ allergica a qualche medicinale?” mi chiede gentile.

La crisi di panico e l’invito a tranquillizzarmi è un ossimoro che non riesco a non notare.

“Cosa non va nella sua vita in questo momento?” chiede premuroso iniettandomi un liquido che dovrebbe farmi passare questo senso di oppressione.

Tornata a casa un’ora dopo, liquidata la vicina con tanti e sentiti ringraziamenti, mi sono messa a letto col terrore che il panico si facesse risentire.

“Cosa non va nella mia vita?”…che domanda azzeccata…

Ho intrattenuto lo sbigottito e paziente dottore per una buona mezz’ora raccontando della fine del mio matrimonio, del prossimo trasloco, delle difficoltà lavorative, dei soldi che non bastano mai.

Gli ho raccontato di Lucilla che mi strazia con i suoi rimproveri sulla morale, del mio ex marito che mi logora con le sue accuse, della mancanza di un abbraccio quando sei stanca. Gli ho parlato della mia cellulite, dei quarant'anni che pesano, della mia voglia di un altro figlio. Mi ha ascoltato quando blateravo sulla mia voglia di pace, di un lifting, e del corso di zumba a cui non posso iscrivermi per mancanza di pecunia.
 Gli ho confessato spudorata della mia assoluta mancanza di buon sesso e di quanto mi manca avere un vigoroso uomo accanto,mentre il mio cuore ritornava a battere normalmente.

Lui  ha ascoltato serafico, stoicamente le mie divagazioni su una vita che al momento non mi soddisfa , si è tolto gli occhiali e serio serio mi ha domandato “Signora, aspetta le mestruazioni?”

Mi sono fatta una grassa risata, che per il mio turbolento stato emotivo è stato un grande momento liberatorio e tornando a casa ho pensato ai soldi risparmiati di una seduta dallo psicologo e al simpatico dottore sposato con una donna che evidentemente mi assomiglia.

Ma gli uomini pensano davvero che le donne siano delle creature mediamente isteriche sregolate da flussi ormonali ballerini?!?


giovedì 24 gennaio 2013

Un incontro impossibile



Era seduta timida, composta, fresca dei suoi quindici anni al tavolino di un bar in centro. Le ho dato appuntamento alle dieci, è arrivata in anticipo, mi fermo curiosa ad osservarla dietro il vetro, di nascosto.

Porta jeans stretti, scarpe da ginnastica Adidas, un maglione lungo, a collo alto che nasconde le forme appena sbocciate. I lunghi capelli chiari fanno da cornice a due occhi sgranati, attenti nella lettura di un libro giallo. Siamo vestite quasi uguali.

 Non ha fretta, è rilassata. Ha ordinato una brioches e una spremuta d’arancia, che per metà, attende di essere bevuta.

Fuori dal bar rabbrividisco, ne riconosco il sorriso aperto, le mani che si muovono come a seguire una musica immaginaria e in un impeto di tenerezza vorrei entrare e senza una parola abbracciarla fino a farle mancare il fiato. Le vorrei dire tante cose che lei non è pronta a sentire, devo essere cauta, attenta a misurare le parole, a non essere fraintesa. So che ha una sensibilità molto spiccata nel leggere tra le righe, nell’osservare, è abituata ad ascoltare e a parlare poco di sé e porta con se la presunzione tipica della sua età. Devo essere controllata nonostante l’emozione.

Mi avvicino al tavolino d’angolo che ha scelto, ostentando una sicurezza che non provo e la saluto. Lei si alza, impacciata, appoggia il libro sul tavolino senza preoccuparsi di mettere il segno che l’aiuterebbe a trovare l’ultima pagina letta.

"Buongiorno Paola, sono felice d’incontrarla." dice incerta.

"Ciao, come stai? Ma ti prego dammi del tu, mi sento così vecchia guardandoti."

Il suo viso è senza rughe, chissà perché vedere la sua pelle liscia, priva di increspature d’espressione, scevra dal lavorio che il tempo e le emozioni scrivono sul volto di una quarantenne come me, mi sorprende.

"Accomodati, vuoi qualche altra cosa? Io prendo un caffè decaffeinato, sai la caffeina mi fa male!” le dico facendo cenno alla cameriera di avvicinarsi, cercando di smorzare un’emozione crescente.

“Veramente? Io bevo litri di caffè, lo adoro! Si vede che nella vita si cambia!” mi risponde sorridendo.

"Come sta? Stai, volevo dire stai, scusa è che sono così abituata a dare del lei alle persone grandi che mi esce in automatico."

Quelle due parole “Persone grandi” risuonano ancora nella mia mente quando il caffè mi viene gentilmente servito al tavolo.

“E’ strano incontrarci, inusuale, ma sono felice di averti qui difronte a me” inizio intimidita.

“Sì pazzesco, se qualcuno mi avesse detto che era possibile non ci avrei creduto, mai, giuro!” mi risponde entusiasta accompagnando le parole con uno svolazzo di mani per amplificarne il significato.

"Come stai?" Le chiedo prendendole istintivamente una mano.

“Questo lo dovrei chiedere io a te, no? “risponde sorridente ma irrigidita da un contatto a cui non è abituata.

“E’ un periodo difficile, doloroso ma tutto da vivere, passerà, non può piovere per sempre no? “ rispondo facendo l’occhiolino, attenta a non rivelare nessun particolare della mia vita, citando una frase di un film che so che ha visto centinaia di volte.

“Il Corvo è uno dei….ma sì …lo sai che è uno dei miei film preferiti!” risponde con un sorriso che mi allarga il cuore e che mi riporta indietro nel tempo. Diventando grandi si perde la capacità di sorridere con tanta ingenuità, penso cinica.

Mi guarda le unghie smaltate di rosso e sorride beata, guardando le sue smangiucchiate. Sospira contenta.

“Come stai?" Le richiedo incoraggiante, raccontami di te, ti prego, ne ho bisogno.

Lei rimane interdetta per un attimo, guardandomi negli occhi e poi come un fiume in piena si lancia nei racconti, sa che con me si può confidare, si può lasciare andare, sa che sono l’unica con cui si prenderebbe la libertà di farlo, tranquillamente senza filtri.

Mi parla della scuola, di suo padre, l’unico vero amore della sua vita, mi rimarca sorridendo. Mi parla delle litigate con la madre, dei problemi che ha con lei, di come la faccia sempre sentire sbagliata. Usa parola da bambina, infervorata in un discorso troppo complicato perché lei lo possa ancora capire, che le fa tremare di rabbia.

Mi racconta del suo ragazzo, il primo e unico che amerà, che è ancora troppo presto per fare l’amore con lui, delle sue aspettative, dei suoi sogni. Mi confessa che è gelosa. Mi domanda emozionata se posso raccontarle come andrà a finire, speranzosa, innamorata, anche se sa che non mi è concesso risponderle.

Al mio cenno di no con la testa continua a parlare di pranzi in famiglia, di vacanze allegre, dei nonni che ama tanto e di liti furibonde con quelle matte delle sua sorelle.

Non devo piangere, mi ripeto come un mantra, non devo piangere, devo trattenermi, non puoi farle paura, non posso piangere, ma poi stupita dai miei stessi pensieri mi lascio andare, le lacrime cominciano a scendere senza pudore, senza timore di giudizio, bisbiglio solo un timido “scusa sai, non piango spesso, ma mi sono emozionata, non sono triste, solo molto emozionata dai tuoi racconti, continua ti prego, parlami dei tuoi progetti.”

“Vorrei studiare psicologia, così in futuro risparmierei i soldi di anni di analisi, vorrei vivere sul mare in una grande casa bianca, mi piacerebbe avere almeno quattro figli perché i bambini mettono allegria e non mi voglio sposare, per nessun motivo al mondo!”

“Sì questo lo ricordo, non ti vuoi sposare!” Sorrido sperando che non veda la piega amara della mia bocca.

“Voglio un amore che sia un’eccezione, immenso e totale e voglio saltuariamente impazzire di felicità” mi dice prendendomi la mano in una muta richiesta di conferma.

“L’unica cosa che ti posso dire piccola mia e che lo continuerai a pensare anche a quaranta in questo siamo state coerenti e decise, le dico alzandomi.
"Devo andare adesso" le dico.
E' delusa, mi chiede " Almeno dimmi se sarò felice, ti prego!" mi chiede curiosa.
"Saltuariamente impazzirai di felicità" questo te lo posso confidare.

So che l’incontro è finito e che probabilmente non ci rincontreremo mai più. Lei vorrebbe rimanere, sapere, domandare, indagare ancora. E’ ancora troppo trasparente le leggo in faccia i suoi pensieri, cambierà.

La abbraccio stretta, le sussurro in mezzo ai capelli che profumano di un balsamo che uso ancora,

“Ti voglio bene, tanto bene, di un bene così grande che ancora tu non riesci a comprendere. Ama, gioca, piangi e vivi esattamente come vuoi  andrà tutto bene, te lo assicuro."

Si stacca dal mio abbraccio, mi osserva il viso, mi tocca i capelli, mi guarda negli occhi, nei suoi occhi.

 “Mi piaci, mi piaci molto sai, sarò molto felice di diventare te tra venticinque anni, sarò più calma, più magra, non mi mangerò più le unghie, sono soddisfatta: ero spaventata dal nostro incontro, avevo paura di vedermi orrenda, vecchia o di non vederti affatto.

L’ho lasciata lì, al suo tavolino, Paola, la me di venticinque anni fa, a leggere il suo libro. Le ho dato un’ultima occhiata andando via, mi ha sorriso da lontano ignara di quanto la vita le avrebbe regalato e di tutto quello che le avrebbe tolto, ignara di quanto sarebbe cambiata e di quanto indissolubilmente saremmo rimaste uguali.














martedì 15 gennaio 2013

A Silvia



Era pallida.

Le mani si accarezzavano l’un l’altra, sul grembo,  in un muto gesto di consolazione.

Rughe di un profondo dispiacere le segnavano gli occhi che rifiutavano un contatto, lo sguardo perso a rincorrere una strada che la portava chissà dove. Aveva labbra screpolate che mormoravano parole che nessuno sentiva e portava un cappello grigio, di lana grossa, che copriva a malapena un grosso ematoma sul lato destro del viso.

Sette e trenta, leggevo  Repubblica sul tram che ogni mattina mi porta a lavoro, articoli che parlano di stupri a Milano, di una madre e una figlia uccise a colpi di martello da un uomo che era la loro famiglia, quando questa giovane donna si è seduta difronte a me.

Sarebbe stata graziosa se si fosse curata di più. Le unghie mangiucchiate non ingentilivano le sue lunghe dita. Le spalle curve, e l’assenza di sorriso invecchiavano una figura snella, un viso dall’ovale perfetto. Dalle calze nere, traspariva una vistosa macchia scura sulla gamba. Si è accorta di essere osservata, ha abbassato lo sguardo, furtivo, impaurito, tipico dell’animale braccato.

Si chiama Silvia, vive nell’appartamento accanto al mio.

 Lei sa che sento le urla, i suoi pianti, le sfuriate di quell’impeccabile uomo d’affari che è suo marito. Sa che spesso di notte, mi svegliano le lacrime di sua figlia.

Sa che sento i tonfi, gli insulti, gli schiaffi di quell’orco di suo marito.

Si vergogna.

Ho provato tante volte a parlare con lei in ascensore, lungo la strada che porta alla scuola dei nostri figli, sul tram, ma a stento mi augura il buongiorno. E’ piegata dalla violenza di un uomo che si è scelto come compagno di vita. Mi chiedo, senza giudicare, quale mancanza d’amore l’abbia portata ad accettare una vita d’inferno. Come fa a sopportare tutta questa mancanza di rispetto?

E’ davvero convinta che lui la picchia per il troppo amore che nutre per lei? Oppure vive in un incubo da cui non è capace di svegliarsi?

 Chissà se si chiede mai come sarebbe la sua vita liberata da tanta violenza, se ha ancora la forza per sognare una vita migliore, senza paura.

Purtroppo lo Stato non tutela affatto le donne come Silvia, non regala un appoggio concreto per venirne fuori, non fornisce un aiuto valido e una protezione sociale efficace per svincolarsi da un rapporto malato.

Le donne come Silvia hanno paura, terrore delle conseguenze, delle ritorsioni, della vendetta.

Silvia è sola a combattere la sua battaglia, con una figlia da proteggere.

Le donne come Silvia in Italia ce la devono fare da sole, troppo spesso muoiono se si ribellano, uccise dal loro carnefice.

Il populismo maschilista che in Italia regna sovrano, la mancanza di leggi adeguate, l’indifferenza, uccidono le donne come lei.

Nessuno le fa credere che esistono delle soluzioni.

Si alza dal suo posto per cedere la sedia ad una vecchina affannata, si sistema la gonna con mani che tremano leggermente, non mi guarda, non mi saluta, con gli occhi bassi scende alla fermata.

Ti auguro una giornata con delle piccole gioie, che qualcuno ti regali un fiore, che tu abbia la forza e il coraggio di mettere fine all’orrore a cui ti sei abituata.

Se vuoi io sono a due passi da te e sarei felice di offrirti un caffè.

Buona giornata Silvia.